PEDAGOGIA GLOBALE
ASSOCIAZIONE LETTERA QUARANTADUE
PER LA PROMOZIONE a te personalmente
DELLE SCIENZE DELL’UOMO
Troppo ho atteso per scrivervi, ma non sempre è facile far risalire le parole verso il loro silenzio originale. Ed anche perché ogni atomo di silenzio deve essere la sorpresa di un frutto maturo. Sappiamo bene che le parole rompono sempre qualche cosa. O forse non c’era attesa nell’aria. Ma scrivere bisogna.
Ciò che ti rallenta la penna che corre, la sua punta, la carta appena sfiorata, l’inchiostro, è l’intenso non l’assoluto che a sua volta non è l’immenso che credi di portare dentro per dire a qualcuno parole di amicizia.
Scrivere una lettera a Pedagogia Globale consiste, in un certo senso, nel prendere le misure del tempo e condividerle con voi tutti. Ciò obbliga a vivere le proprie parole. Scrivere una lettera bisogna, perché la nostra epoca va più veloce dei dibattiti. .
Riprendete voi pure la penna poiché il telefono rosicchia lo spazio alle lettere. La lettera impone una certa riflessione. Per questo vi chiedo di leggere sempre le lettere di Pedagogia Globale in tre, attorno ad un tavolo, per un bene comune di riflessione, nel nostro essere comunità.
Colui che scrive si mette tra parentesi nell’attesa di una sorta di grazia. Si tratta di aspettare che qualche cosa venga a sorprenderci nello stesso atto dello scrivere.
Quando scrivi ti voti a una specie di attenzione distratta portata sull’impercettibile. Occorre umiltà per scrivere. Più ti allontani dal voler scrivere un discorso o dalla sola volontà di dire, più fai attenzione al ritmo, alla musica, al soffio, al silenzio e più ti avvicini alla grazia vivente. Quella dell’altro, senza saperlo, attende.
Più sei nella pretesa e più cadi nel ridicolo.
Bisogna leggere, rileggere, lavorare, comprendere, intendere. Anche questa è una posizione di umiltà.
Mi sembra un dovere elementare per chi scrive agli altri il dover leggere per ritrovare memorie di ciò che i tempi hanno disdegnato. Io copio nella biblioteca, la sera, anche i testi che oggi sono considerati indisponibili, i dimenticati. Perché quello che è scritto diventa onda sonora tra chi legge e chi ascolta.
- Domenica, sono partito tra l’essere fuggitivo e l’essere ricercatore a sono approdato in S. Francesco di Lodi a cercare la tomba di Ada Negri, la poetessa che modellò la nostra adolescenza. In S. Francesco, chiesa di affreschi del 300 sparsi sui muri e le colonne, a respirare un’atmosfera romanica. E lei, Ada Negri, là portatavi dal Famedio di Milano.
Dice di lei Cesare Angelini:
“Di quando, fanciulletto dodicenne e inginnaziato, là ai primi del secolo, scappando dalla scuola, con un dilettissimo amico, correvo sui bastioni spaziosi della mia città a declamare e a cantare più Ada Negri si poteva; impegnandosi ognuno dei due di mostrar di saperne più dell’altro.
E se uno preferiva i canti che più rendevano suono di campane a martello e chiamavano ad animose raccolte sotto squillanti bandiere, l’altro già mostrava di scegliere i più consapevoli e pii; tutt’e due poi convenivamo su pagine che riflettevano più quietamente e il cielo e il cuore. Voltando poi via la faccia per nascondere la traboccante commozione:
Nel paese di mia madre v’è un campo quadrato, cinto di gelsi.
Di là da quel campo, altri campi quadrati cinti di gelsi.
Roggie scorrenti vi sono, fra alti argini, dritte, e non si sa dove vanno a finire.
Pioppi e betulle di tremula fronda accompagnan dell’acqua il fluire:
Quando ne’ rami s’impigliano gli astri, in quella pace vorrei morire.
Nel paese di mia madre, quando il tramonto s’insanguina obliquo sui prati,
vien da presso, vien da lontano una canzone di lunga via:
la disser gli alari alle cune, gli aratri alle marre, le biche all’aie fiorite di lucciole
vecchia canzone di gente lombarda: “La Violetta la vaa a lavaa…”
E chi dei due ragazzi, a recita finita, tornava a staccar dalle strofe i versi più lungamente vivi?”
In Ada Negri, troverete “la semplicità greca e dolorosa che è nell’endecasillabo di Leopardi” (Flora)
Di lei, leggete il bellissimo romanzo autobiografico STELLA MATTUTINA.
- Anche dopo tanto silenzio, è difficile mettere le parole in fila e tantomeno i sentimenti e le idee a lungo repressi.
Ho nel frattempo incontrato gente, libri, storie, vite. Ci si accorge che l’umanità e l’umiltà sono cadute assieme, l’una contro l’altra, nell’oblio. Sulla liscia e riflettente superficie dello schermo, la vita -o la morte- non lasciano più tracce.
Si guarda l’essenziale, ciò che è utile, ossia il “qualificante” che produce il massimo effetto in minimo tempo. Per una ingestione rapida si disossa, per una lettura facile si banalizza, per una comprensione immediata si riassume. Ciò che oggi non è operativo può essere soppresso.
Così sono scapate via le asperità, le crepe, i percorsi sinuosi della ricerca, pure le vertigini e le folgorazioni capaci di cogliere il pensiero, capaci di provocare lo sguardo e il corpo.
La velocità, l’alta “definizione”, la finezza delle misure, l’esattezza e la precisione data dalle nuove tecnologia, sono diventati criteri di qualità, i loro contrari dei difetti.
La società, nel suo insieme adattando queste regole tecniche, le ha promosse a regole di comportamento. Donde il sentimento di appiattimento, di informatizzazione in cui, cari Colleghi, rischiamo di non saper più che fare della nostra Pedagogia Globale intesa come “dono e contro dono”.
- Torno allora a un caro filosofo Gustave Thibon con il quale ho trascorso ore di “parlarvi?” e del quale, date le premesse di questa lettera, raccolgo pensieri tenendo conto che ognuno fu scelto e pensato perché voi troviate i vostri.
Dice Thibon, CENTELLINATIM, ossia preso qua e là, che occorre essere testimoni di se stessi: seguimi, tu mi supererai, se mi seguirai bene.
- Amo abbastanza la marginalità che permette di essere fuori campo. La marginalità mi ha spesso permesso di sfuggire alla gloria. Non amo mettermi avanti, espormi. Un uomo che si mette avanti, per volume, mercanteggia il suo orgoglio in vanità.
- Ho capito che cosa è parlare, ma un’altra è vivere a fondo ciò che si dice.
Da qui deriva dunque un elogio del silenzio e della vita interiore. Penso che essa sia quasi sempre in ritardo sul pensiero di chi parla e di chi scrive. Potrei essere un bugiardo nella misura in cui volessi dare l’impressione di aver pienamente vissuto ciò che esprimo a parole o per iscritto.
Le cose più profonde sono veramente incomunicabili, spesso anche nell’amore. E’ difficile trasmettere parole se non conducendo al di là della parola.
Thibon: “Ho lottato nel mio spirito. Non fare opera di teorico, ma perché s’incarni ciò che dico e scrivo nei fatti l’ideale al quale ho aderito con tutte le mie forze.
Quando una parola è alla moda, occorre chiedersi ciò che maschera più di ciò che significa”.
A mio parere, troppa gente del bene è infelice a causa dei cartelli indicatori sul camino della virtù. E’ bene orientata, ma non avanza. Non basta dunque lottare contro, fare discussioni, bisogna, cari Colleghi, costruire. Bisogna avere il desiderio di spazzar via costruendo.
Ciò che dovrebbe ferire noi di Pedagogia Globale, nella nostra epoca, è lo scricchiolamento e lo sradicamento. La vita si scolora quando la si vuole alta in colori di compensazione.
Chiamati noi ad essere una presenza nella comunità umana, grande o piccola, dove operiamo, rileggiamo le pagine stupende di Padre Caffin dette in Pedagogia Globale, là dove sostiene che la comunità è il luogo della scoperta del volto dell’altro.
Una volta ci si amava o ci si detestava. Oggi vi è una specie di indifferenza: la moltiplicazione dei soli. Si scivola, e ne soffrite, si manca di spessore, di densità, di profondità. Siamo nel mito del passaggio al nuovo e cadiamo nel funzionalismo: organismi di difesa, di controllo di protezione. E la stessa scuola non è più formazione, ma solo salvataggio.
C’è da chiedersi se ciò che si restituisce sia un bene.
Un giudizio su chi è senza diritti, richiede da parte nostra molta ponderazione. Bisogna evitare qualsiasi forma indebita e sconsiderata di generosità.
- Equilibrio e armonia
Nel corpo come nella società, ogni centralizzazione è un male. Gli organi non sono più centralizzati, essi sono unificati. Oggi abbiamo forse troppo equilibrio e non abbastanza armonia.
Per non smarrirci: l’equilibrio è fatto di pesi o di contrappesi, come le note di una melodia e dove tutti gli elementi musicali (o pure i silenzi) sono disuguali tra di loro)
La sera, certe sere dei nostri famosi 20 minuti di silenzio, ci si chiede fino a dove può andare il silenzio di Dio. Non è il nostro sguardo che manca alla luce, è la luce che si spoglia ai nostri occhi. “Se l’uomo non può strappare la sua maschera, il velo diventa spesso sul volto di Dio”. A te serve solo lo smarrimento. E non ti è lecito.
Ripenso a Simone Weil: “Dio e l’uomo sono come due amanti che si sono sbagliati sul luogo dell’appuntamento. L’uomo attende Dio nel tempo e Dio attende l’uomo nell’eternità”.
Allora si parta alla ricerca dei collaboratori formati per una Pedagogia attenta alla globalità dell’uomo: “Io non voglio dei possibili integristi né invertebrati progressisti, io rifiuto di scegliere. Voglio corpi viventi, che hanno bisogno di solide vertebre e di organi, di scheletro e di sangue”.
A noi occorre quella contemplazione che comincia dove cessa il linguaggio: è allora che proverai come Dio diventa sempre meno straniero e sempre più sconosciuto, ma anche che egli si rivela agli esseri dotati di mistero, il che implica nell’animo l’adorazione e pure lo scetticismo.
“La luce fa ombre. La verità fa il mistero”.
Tra lettere da scrivere, e come, tra interrogativi sull’essere presenti nel tempo in cui siamo l’ombelico dell’universo e giochiamo a fare i martiri ognuno di noi rumina una zampata ricevuta e diciamo: “merito di meglio, mi si deve consolazione”.
Cosi nasce in noi e attorno a noi, un paese di individui infantili, ognuno convinto di essere la vittima; vivendo male -da scorticati vivi- la concorrenza di tutti contro tutti, e prigionieri di un clima di ansietà che emana dai media.
Come governare questa folla di pigotte che imprecano? E’ un’analisi che va approfondita sulla crisi della democrazia e dell’educazione.
Nel prossimo “A casa di… 1995” tenteremo una lettura e una risposta che siano uno scoprire il valore delle cose per cui a un certo momento della nostra storia siamo partiti verso la globalità e la gloria dell’uomo.
- Questa sera cadiamo nella “contemplazione” dei nostri libri. Pochi o tanti. Cicerone diceva che la biblioteca era l’anima della sua casa. Innumerevoli sono gli omaggi resi ai libri scelti o trasmessi dai libri fra i muri del nostro spazio personale. Chi li frequenta da vicino, spesso a propria insaputa, impara gesti e parole fatti per l’intimità.
Spesso, sul filo del tempo, secondo l’ora, innocente, lieve o grave s’intesse una storia con ciascuno dei vostri libri.
Questo vizio impunito della lettura Il ridere, la consolazione, il gioco, la pace, la vertiginosa, l’indicibile libertà mentale del viaggiatore, nella gioia e nella malinconia, fra i secoli e gli universi, ecco ciò che noi raccogliamo e proteggiamo in casa, ecco ciò che ci protegge.
Ai giovani che si affacciano all’adolescenza urge un “educatore-amico” che, per tale amicizia, gli porga tra le mani un libro per sognare, per proiettarsi, per dirsi, per raccontarsi.
Diceva Sartre: “Finirò la mia vita come l’ho cominciata, in mezzo ai libri. Non sapevo ancora leggere e già rivivevo queste pietre lavate: dritte o pendenti, strette come mattoni sui ripiani della biblioteca, le toccavo di nascosto per onorare le mie mani con la loro polvere. Maledetta polvere, ma è una parola magnifica. Forse perché io vedo “polvere” come “polline”; qualche cosa che sta all’inizio”.
Ciò che conta è che un libro non si trasformi in un oggetto.
Ma si legge ancora? E che cosa? Il libro cambia con il mondo e il mondo con lui. E’ questa epoca che finisce. Nascono nuovi “caratteri” per aiutare il nostro avvenire. Desideriamo che molti scrittori siano dei veri ricercatori perché la stessa nozione di politica sia profondamente trasformata.
Come sarebbe bello essere governati da coloro che hanno scritto… lo spirito avrebbe dato le ali alla politica.
- Concludendo questa lettera, che non è un trattato, ritorno, cari Colleghi, sul pensiero che occorre vivere le proprie parole.
Ogni creatore, o quasi, ha risentito in sé più vocazioni prime dei talenti e delle circostanze, ma ha poi bisogno di comunicare per una reciproca rivelazione: io dico me dicendoti. La forza della nostra voce, bagnata di interiorità, ha quella possibilità per cui nominando crea.
E quando, chiamati a dire, umilmente riconosciamo che dopo il discorso, le parole devono giungere al silenzio. Fare silenzio, quando tutto si agita, ci permette di trovare la nostra dimensione interiore, che non è una fuga schizoide dal mondo, ma che ci permette di dire: io non giudico più.
Io ho pietà. Là dove noi vediamo errori da condannare nella generazione che ci cresce attorno, Dio vede smarrimento da soccorrere. Dunque non scuola salvataggio, ma scuole di educazione.
Dubbi su tutto ciò? No, poiché l’invisibile è sempre legato al visibile.
Cari Colleghi, tra il mistero e l’assurdo bisogna scegliere.
Io ho scelto, ma vacillo continuamente tra cielo e terra.
Ora non sempre si attendono o si sperano risposte alle lettere, ma importa che arrivino al destinatario. Si ricorda il vecchio amico di Hemingway che, non sapendo dove inviargli una lettera a causa dei suoi vagabondaggi, aveva scritto sulla busta: “Per Ernest Hemingway, Dio sa dov’è”. La lettera è arrivata e lo scrittore telegrafò al mittente: “Dio lo sapeva”.
Con la stima di sempre, cari Colleghi,
Umberto Dell’Acqua