Dicevo che la forma della fortezza nel bene è appunto il coraggio di denunciare il male, di dire: “questo è sbagliato”. Non è possibile per noi dire il bene senza contraddire il male. Questa è la condizione dell’uomo. Dire soltanto il bene lascia così indeterminato il suo spazio che ognuno in una morale puramente formale vi si può insediare.
Lo porto soltanto come esempio di un’intenzione che voglio dare a questa riflessione, e cioè: la conversazione morale che affronta di nuovo la complessità del rapporto fra la dignità dell’umano e il modo con cui essa va sostenuta e anche difesa, che poi è anche la questione dell’onore, dell’onorabilità non soltanto per sé ma come tema dello scambio sociale: mi pare che voi suggeriate che è più complessa di quanto non sembrerebbe.
L’altro esempio “lampo” è: il sacerdote che dice, sia prima che dopo, una cosa giusta che va a cadere su un terreno ambiguo. La cosa giusta è: il Vangelo non incomincia dicendo: “Uomini dovete amare Dio, e se volete bene a Dio, dopo Lui vedrà cosa fare per ricompensarvi”; ma dice prima di tutto: “Dio vi ama e questo sollecita da voi un pronunciamento, adesso che ve l’ha detto dovete pur dire qualcosa, dovete pronunciarvi su questo”. Nello stesso tempo, però, la ribattuta: diventa reale il fatto che voi accogliate questa parola, diventa interlocutorio, degno dell’uomo accogliere questa parola. Quando tu, naturalmente dopo, uscito dalla stanza dove il Signore ti ha detto che ti vuol bene e che ti condona il debito di 50 denari poi non esci e non strangoli uno perché ti deve due lire… Perché, se no, al Signore viene un piccolo ripensamento… Perché questo inizio ha bisogno di realizzarsi, la relazione avviata dall’amore impregiudicato, preveniente, sorgivo di Dio, ha bisogno di diventare effettiva nella relazione, e per farlo ha bisogno del proprio riscontro, ha bisogno di non essere contraddetta.
Allora il sacerdote (che in questo caso si trova molto convergente con la psicologa della scuola, che insegna alla mamma – come il sacerdote insegna ai suoi bambini – che il Signore ci accetta così come siamo) dice una cosa giusta e nello stesso tempo offre un’enorme copertura alla persuasione sociale oggi diffusissima: “Quindi state come state”, siccome il Signore ci ama così come siamo, “state come siete”.
Questa signora ha un bambino un po’ in difficoltà, ecc. “Ma il Signore Le vuole bene lo stesso!”. “Ma sì, il Signore mi vuole bene lo stesso, ma il bambino è questo!”.
Allora c’è qualcos’altro che fa il Signore, oltre che volermi bene così come sono? E’ lo stesso per l’esperienza morale.
E’ certamente dannoso per la crescita dell’essere umano avere la percezione dell'”in qualunque modo”, non cambia niente, non c’è alcuna differenza nella relazione.
“In qualunque modo” il tipo di stima è identico, la forma dell’ospitalità è identica. Questo non ha alcun senso per l’essere umano.
Allora bisogna che impariamo a far convivere il concetto sacro della ospitalità con l’idea che proprio perché è sacra l’ospitalità innesca un meccanismo della relazione – non della contropartita – ma della relazione coerente con essa, e la relazione coerente è quella dell’ospitalità che sollecita a coltivare presso di sé analoga apertura del cuore. Perché se uno, appunto, è egoista, insediato nella tua ospitalità è incoraggiato ad essere parassita, a diventare sistematicamente parassita.
Questi due spunti ci introducono al mio modo di presentare questo tema che, come chiave generale, fa leva proprio come messaggio sulla necessità di riabilitare il tema dell’onore, riabilitarlo quindi nella linea che voi suggerite, come forma-figura della fortezza dell’animo, che è il suo luogo tradizionale, sia nella grecità antica che anche in tutta la tradizione cristiana del periodo medioevale.
Però stabilire la necessità della riabilitazione dell’onore come qualità forte (distanziandolo quindi dal concetto di “buona fama”, che è l’elemento ambiguo, perché è quello che appende le persone al giudizio altrui), comporta che si prenda in considerazione il fatto che non sarà privo di significato il fatto che proprio questo slittamento è tipico della modernità.
Lo slittamento della figura dell’onore da “proprietà personale” della fortezza, della magnanimità, della qualità dell’animo e – diciamo pure – della grandezza d’animo che, in quanto virtù, è riservata a tutti quelli che hanno grandezza d’animo (non è questione di censo, naturalmente), lo slittamento verso la figura della “buona fama”, lo sbilanciamento è proprio il problema del concetto di onore nella modernità. Difatti per noi (a parte l’idea che “uomini d’onore” non è poi una definizione ambita, ormai) onore, onorabilità è una figura che ha a che fare con la pubblicità: nel nostro piccolo col pettegolezzo, se siamo personaggi un po’ più importanti con il mondo della comunicazione pubblica.
Sappiamo che sentiamo inesorabilmente che c’è una sorta di prevaricazione del concetto della “buona fama” anche nei confronti della qualità effettiva dell’animo “d’onore”, dell’animo “onorabile”, al punto che la fortezza d’animo non può neppure farsi strada, è totalmente travolta, ignorata dalla forma della “buona fama”.
Allora la “buona fama” rappresenta un vincolo che, in qualche modo, esercita una pressione sulla formazione del singolo e lo induce ad allineare la figura, la forma interiore della propria onorabilità alla forma della buona fama. Naturalmente la buona fama sospesa a se stessa rende buona anche un’onorabilità dubbia, soprattutto in un tempo come il nostro, dove la complessità sociale e la potenzialità del conflitto sono tali che si cerca di forzare il più possibile il tema del rispetto formale. Non appena uno si presenta in pubblico ha come il diritto ad essere qualificato uguale, titolare di uguali diritti e dunque tutte le sue professioni sono rispettabili, tutti i suoi modi d’agire sono opinioni lecite, ecc.
Questo esercita una certa pressione sulle giovani generazioni, perché esse sono invitate sempre più a polarizzare, a concentrare i concetti di stima, dignità, onorabilità con quelli di buona fama, di riconoscimento di successo, non importa a proposito di che. Dal momento che il carattere pubblico, civile e quindi non semplicemente casuale ma organizzato, strutturato della espressione di sé in qualche modo garantisce come la soglia entro la quale si è garantiti della legittimità di quell’esposizione (non te la farebbero vedere se fosse proprio il crimine in quanto tale) e questo omologa l’idea della stima, del rispetto di sé con il problema della buona fama.