Queste due figure, l’onore come qualità interiore (che fondamentalmente è polarizzato dal concetto di fortezza d’animo) e l’idea dell’onore-onorabilità come buona fama (che fondamentalmente è polarizzato dal concetto di riconoscimento pubblico, di pubblica omologazione) sono in realtà due momenti che di per sé sono già intrinseci alla costituzione di questa figura nella nostra tradizione, sicché parleremo di sbilanciamenti, ma nello stesso tempo dobbiamo subito aver presente che il risultato buono (cioè di ricomprensione di questa qualità che ha vantaggio ad essere rimessa in circolo come un punto di aggregazione di energie costruttive) dipenderà dal buon rapporto tra queste due figure; sicché esse divaricano e portano anche all’eccesso nella grecità, due profili che insieme realizzano la forma dentro la quale l’essere umano guadagna in qualità della vita, facendosi guidare dal concetto di onore, di conquista dell’onore, dell’onorabilità.
Questo è un po’ l’impianto: ci deve essere quindi un guadagno che però avviene se raccogliamo le due divaricazioni, gli eccessi di questa divaricazione. In effetti nell’antichità greca si usa assumere come matrice (o almeno come una delle matrici, perché poi c’è sempre quell’altra ebraica, per noi) dell’ethos, soprattutto dell’ethos civile, quello dei greci dell’occidente: l’onore è strettamente legato al concetto politico dell’azione. Questo nella formazione riflessa (Platone, Aristotele) ma le sue radici omeriche sono legate allo splendore del valore guerriero.
Onore non è tanto vincere sull’avversario, ma lo splendore di questa vittoria, cioè la forma per cui questa vittoria sul nemico, questo eroismo nella battaglia, questa efficienza del singolo nella battaglia si circonda di splendore, e quindi aggiunge all’efficienza dell’eliminazione dell’uomo ostile, dell’avversario, del nemico una figura di grandezza dell’umano, la connota come figura di grandezza dell’umano, sicché per essere onore-onorabile-onorata quella forza deve sprigionare delle qualità umane. Vuol dire che, nonostante che in se stessa sia un atto violento e distruttivo, questo atto non deve essere violento e distruttivo come quello dell’animale, come quello della natura. Non deve essere troppo facilmente equivocato con l’impulso animale all’uccisione della vittima: nei due sensi, sia nel senso della bestialità sia anche nel senso di quella impassibilità che l’animale ha nell’uccisione del proprio simile. Perché lo fa sentire senza via e studio, lo fa per il cibo, lo fa per i piccoli e (ricordo alcuni documentari) l’occhio della vittima è molto espressivo… L’occhio del predatore è indifferente e l’occhio della vittima ha una sorta di dolorosa ma rassegnata indifferenza. E la iena ti porta via il piccolo gnu finalmente conquistato, le femmine dello gnu la guardano passare: ormai è fatta. Come noi quando agli incroci, se uno spunta prima, anche se tocca a noi ci fermiamo. Non vale la pena di darsi addosso solo perché quello è partito prima.
E’ una cosa che dà un senso molto profondo, molto enigmatico della forma della natura, ma anche un grande sconvolgimento, perché effettivamente è come se lì la forma del dolore naturale fosse largamente prevaricata da una sorta di onore reso a questa impersonale legge della natura, che non deve suscitare più emozioni di tanto, perché quell’altra va poi nella tana e anche lei ha dei piccolini da nutrire. Non suscita stupore quando noi l’osserviamo.
L’uccisione reciproca raffredda. Non necessariamente vediamo orrore, l’incantato mondo degli animali ritorna a diventare una fredda neutralità.
Aristotele dice che non deve essere né questo né la bestialità nel senso di questa indifferenza. La lotta tra gli umani mette sempre in gioco qualcosa che deve essere qualcosa di più del cibo, o la donna, o il territorio, anche se apparentemente si tratta di quello, e non deve essere bestiale nel senso di quel godimento analogo a quello dell’uccidere l’altro.
La grandezza del guerriero è questa: il guerriero non uccide mai con indifferenza, ma uccide con passione, con passione umana. A noi può sembrare paradossale, ma voi siete in grado di collocarvi in quel contesto e capire anche l’innovazione che c’è qui. Se ha da essere deve essere un atto umano anche quello.
Si può dire questo perché è legato alla ritualizzazione dell’uccisione. Chi è che riceve l’onore in battaglia, omericamente? E’ l’eroe singolo, è quello che sfida il suo pari; ecco dov’è disonorato: se sfida un servo a duello. La parità dell’umano deve conservarsi persino nel paradosso dell’intenzionata uccisione e non deve farlo con il godimento di chi si mangia un cibo; deve farlo con il rispetto del proprio pari e non nella forma indifferente dell’animale che uccide semplicemente perché ubbidisce ad una sorta di impulso cieco ma anche freddo.
Dunque l’eroismo che merita onore, che consegna alla gloria (la buona fama è il riflesso dell’onore conquistato) è appunto la forma di una vittoria umana che ha lo splendore dell’umano. Anche quando essa debba esercitarsi, come inevitabilmente è, nei confronti della lotta e della forza.
Voi comprendete per quale ragione questa tradizione, che è la tradizione fondamentale del concetto di onore poi sia passata attraverso il mondo romano nel cristianesimo. Il cristianesimo sino alle soglie della modernità ha come referente per i suoi punti d’onore più alti – che sono il martirio in testimonianza della fede e la lotta per la virtù (la lotta per rimanere fedeli al bene) – fondamentalmente modelli omerici: San Bernardo, “L’imitazione di Cristo”, Erasmo… Tutti i grandi prima e durante la svolta dell’umanesimo scrivono veri e propri trattati sulla metaforica guerriero-bellica dell’esistenza cristiana. La lotta contro il male: in ciò sta l’onore del cristiano. Resistere al male fino alla morte.
Questo è il modello mediato del martirio, cioè morire con onore significa non subire semplicemente anche l’inevitabile, ma portarlo in modo che traspaia ciò in nome di cui (non di meno – anche a dispetto di quell’altro) si vuole morire. E questo non me lo può togliere l’altro, mi può togliere la vita, mi può umiliare, ecc. ma non mi può togliere questo onore, di decidere di morire per chi o per quello che voglio io. Attraverso la figura del martirio e della lotta attiva con il male.
Morire con dignità, battersi con dignità contro il male, che mentre tien desto un contenuto vitale per il concetto di onore, anche contiene il tema del conflitto nella sfera dell’onore e perciò impedisce sia al martirio che alla lotta contro il male di debordare.
Dovete vedere anche il doppio riflesso.
Questa tradizione continua a vedere l’onore nel coraggio con il quale o si affronta la morte o si lotta contro il male (come è tradizione in tutte le istruzioni spirituali sino al 400/500). Se ci pensate bene, il cerchio dell’onore – che è un certo qual splendore dell’umano anche nella durezza della vita, della conquista di sé, della realizzazione di sé, di ciò che si intende nella protezione di ciò a cui si vuol bene – trattiene sia la consegna della propria vita, sia dalla forma della rassegnazione.
Pensate se non ci fosse il modello del martirio come dignità e onore dell’essere prevaricati, per cui anche lo schiavo che muore nel nome di Cristo merita altissimo onore. Noi avremmo svuotato, fatto uscire da questo cerchio, avremmo un indotto sociale della rassegnazione che è autodistruttiva (e ditemi se oggi non rischiamo questo).
Il ragazzo che si droga e si ammazza perché non ce la fa, non è forse un ragazzo al quale non è stato insegnato che c’è un onore, e ci deve essere persino nella sconfitta? Che a quel punto un essere umano si riprende in mano, fosse anche finito in un tunnel, in un buco senza uscita, in una condizione disperata…
Questa è la tradizione: devi iscrivere nel cerchio dell’onore quella durezza altrimenti selvaggia o puramente animale o naturale: nascere e morire, che è la forma del degrado dell’umano. Degrado dell’umano perché lì la qualità umana non è più cercata. Invece lì, sia pure come caso estremo, il modello del martirio applicato alla vita quotidiana, nel senso cristiano, nel senso di sopportare le avversità, ecc., questo impedisce all’uomo di accettare puramente e semplicemente la propria distruzione, di accettare che l’insuccesso e la sfortuna abbiano ragione di lui, di accettare l’idea che non si possa strappare non foss’altro che questo: almeno la propria morte all’infausta sorte, in modo che la sua morte, almeno quella, possa indirizzarla.
E questo naturalmente chiede un forte senso dell’onore, che (come dice San Tommaso) è parte della virtù della fortezza, una delle virtù cardinali, che non è spavalderia di quello che affronta così, semplicemente per dimostrare la propria potenza.
Fortezza è prima di tutto la fortezza con la quale io tengo in mano me, di fronte al male. Anche San Tommaso fa l’esempio del guerriero, quello dell’infermiera che sta curando il malato di peste, quello della madre che si sacrifica per il proprio bimbo, ecc.
C’è lì uno splendore dell’umano nella lotta. L’idea che il concetto di onore non sia troppo facilmente dissociato dal tema della lotta, dal tema del conflitto… Dove “lotta” vuol dire il conflitto preso su di sé, assunto, non ignorato con lo splendore dell’anima bella. C’è qualche cosa da correggere in questa inclinazione.
Il concetto di pacifismo in bocca ad un ragazzo di 15 anni non è sano. C’è qualcosa che non va bene. Vuol dire che noi grandi gli abbiamo insegnato, nel giusto desiderio d’insegnargli, che la qualità della vita è nella riduzione del conflitto. Però l’appropriazione incauta del concetto di non violenza espunge dalla vita la capacità d’inquadrare il conflitto inevitabile che va dominato.
E “dominato” vuol dire fortezza d’animo: mantenere la dignità dell’uomo nel conflitto significa che nelle situazioni più esasperate di conflitto non si può rassegnarsi semplicemente al fatto che è naturale che alcuni soccombano e altri vincano (la morte animale di cui parlava Aristotele) e anche essere protetti dall’idea di provare godimento per le sofferenze altrui. Perché c’è una viltà, un modo di sottrarsi, un modo di star fuori dal conflitto tra due che è il semplice godimento del voyeur, non la tranquillità del pacifista, è il godimento di colui che gode di vedere questi che si scannano dicendo: “Ah, io non farei mai una cosa simile!”.
C’è una verità in questo nesso antico, che però non viene elaborata: l’onore è dunque legato alla fortezza in combattimento.
E poi questa metaforica, naturalmente, può essere estesa alle varie forme e qualità dell’essere individuale come del rapporto sociale.
Una mediazione interessante che porta alla concezione politica dell’onore è questa: c’è un cambiamento sociale anche nel modo di fare la guerra che inaugura la guerra moderna, relativamente parlando, rispetto a quella degli antichi.
Non è più l’eroe adesso il protagonista della guerra moderna degli ateniesi, ma l’oplita, il soldato precettato, quello che fa il lavoro, che non è nobile, che non si realizza in battaglia, anzi ha il compito di non realizzarsi come eroe. La forza dell’esercito nuovo, delle testuggini dell’esercito di squadra è proprio questa: che ciascuno sta fermo in squadra. E lì, effettivamente, “boia chi molla”.
Se molla qualcuno per fare l’eroe noi diventiamo un gruviera. Questa è la mediazione attraverso la quale poi giungiamo all’elaborazione di Aristotele, il quale dice che l’onore è la capacità, la fortezza e la dignità nella conquista, e che il mantenimento del bene è la virtù politica per eccellenza.